Immaginate di fare una passeggiata per le vie della città; salutate un po’ di persone che incrociate sul vostro cammino. Fate due chiacchiere con un tale, parlate di cose più intime con un vecchio amico; entrate in panetteria per acquistare focaccia e mentre attendete di essere servito ingaggiato una discussione sulle ultime notizie ascoltate al telegiornale.
Un tale afferma di aver letto una notizia, scritta con una bomboletta spray, sulla parete del teatro della città. Qualcuno ha usato la parete che si affaccia sulla via principale per farci sapere che sono stati erogati fondi per finanziare l’abbonamento sky ad un gruppo di persone che abitano in un campo rom.
La notizia riferita assume la dignità di cosa vera, nessuno si premura di assicurarsi che questi fatti siano reali; il modo in cui viene proposta è veemente e passionale; un piccolo gruppo di persone si accalca e da quella notizia nasce una discussione, pochi ne mettono in dubbio la veridicità. Non importa.

Immaginate adesso che quest’ambiente non sia reale ma virtuale, tipo Facebook insomma. Ecco che qualcuno ha letto la notizia, non sicure di assicurarsi della veridicità della stessa, la divulga, imbatte in qualche centinaio di “like”, eccetera eccetera…

Non sono qui a discutere sul danno e sul fastidio di queste condivisioni, vorrei invece fare un pensiero sulle motivazioni e sulle emozioni che abitano quel gesto.

Se partiamo dall’esame delle notizie divulgate, quelle più gettonate che riguardano:

Su che cosa fanno leva queste notizie? Quali sono le emozioni che mirano ad attivare?

Uno dei valori che vengono attivati è legato al senso di giustizia, un altro potrebbe riguardare la solidarietà e di conseguenza lo sdegno rispetto ad atti reputati scorretti, violenti o emarginanti.

Le emozioni che si possono leggere fanno invidia al fiore di Plutchik, vanno dal disgusto alla paura, allo sdegno e si canalizzano quasi tutte nell’espressione della rabbia.

La notizia, vera oppure no, sembra valere la pena di essere divulgata perché potrebbe confermare personali posizioni valoriali, potrebbe rispondere al bisogno di sottolineare la propria immagine sociale di “brava persona” (in questo senso condividere potrebbe voler dire “occuparsi di…”), potrebbe rispondere alla necessità di canalizzare rabbia insoddisfazione vissute nel quotidiano e che necessitano veicoli per uscire, oppure banalmente risponde ad un bisogno di apparire; o più d’uno di questi aspetti insieme.

Tutto comunque viene prima della necessità di cercare di comprendere se quanto si sta pubblicando si basi su cose reali.
Rimango interdetta quando trovo messaggi di persone che stimo vincolante notizie prive di fondamenti, magari introdotte dalla premessa “forse sarà una bufala ma condividere costa poco”; utilizzino lo stesso metodo comunicativo anche nel quotidiano, sul lavoro, nei rapporti reali.

Davvero fanno come quel signore di cui dicevo all’inizio di questo scritto che legge qualcosa su un muro e la divulga senza accertarsi che sia vero oppure no?

La mia preoccupazione si rivolge a quest’importante calo di attenzione, di ripetitività senza basi, di mancanza di consapevole comunicazione.
Nicodemisti nel quotidiano, ma sul social censori fortissimi, paladini di giustizia social-diffusa, difensori di umili ed afflitti con un like.

Davvero basta questo per regolare i conti con la coscienza sociale?
Cosa muove la condivisione compulsiva?

Forse la necessità legata ad un arcaico “devo agire subito in qualche modo” a cui un clic del mouse dà pace.

Il mio lavoro è basato sulla comunicazione, che studio e amo, e mi sento impotente di fronte a questo scempio appiattente in cui tutti sono esperti, in cui si sdogana ogni posizione.

Non credo che la colpa sia dei social in sé ma di come vengono usati, di chi li usa.

Concludo qual’è triste notizia del ragazzo suicida nel Canal Grande: il 22enne muore annegato mentre un gruppo di astanti lo filma e lo pubblica sul Web. La sua morte fa notizia e alla nostra misera umanità è sembrato utile condividere… click

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