La vita è una questione di scelte, ha detto qualcuno. Ed effettivamente se ripercorressimo la storia della nostra esistenza la potremmo tranquillamente tradurre in una sequenza di bivi o incroci ramificati in cui abbiamo cercato di camminare seguendo un filo conduttore che sentivamo come maggiormente vicino a noi in quel momento.

Ma poi? Tutte le nostre scelte sono risultate vincenti? E, anche qualora lo fossero state, le abbiamo vissute tutte con grande tranquillità oppure abbiamo pensato che forse potevamo fare diversamente, che in fondo ci dispiace per quell’amico, fidanzato, collega che è stato penalizzato dal nostro percorso?

E se la scelta non riguarda solo la nostra persona? Se dobbiamo decidere in vece di qualcun altro, quali emozioni e carichi di responsabilità si accumulano?

Michael Ende scrisse: “soltanto chi lascia il labirinto può essere felice, ma solamente chi è felice può uscirne”.

Nella nostra epoca una tra le parole maggiormente ridondanti è consapevolezza e sotto la bandiera di questa parola si compiono notevoli infamie, le peggiori compiute nei confronti di sé stessi. Quando ci si trova di fronte ad una scelta importante si ha una proporzionale paura di sbagliare, maggiore è il carico maggiore la sensazione di timore che si traduce in taluni casi in terrore; spinta ad azioni scomposte e frettolose o per contro blocco di qualsiasi azione. Quindi al bivio, all’incrocio, ci si attiva per non incorrere nel paradosso dell’asino di Buridano e, in primis, ci si informa.

La raccolta delle informazioni verso la scelta consapevole cela importanti trabocchetti. Se è normale, anzi auspicabile, che si sia attivi, costruttori del nostro destino, più siamo scossi, emozionati, ansiosi, più cerchiamo velocemente soluzioni rassicuranti ed in queste siamo decisamente influenzati dal gruppo sociale di appartenenza che difendiamo quando è in linea con il nostro pensiero ed attacchiamo ciò che si differenzia.

Anche questo potremmo ritenerlo “normale” ma credo possano essere utili alcune riflessioni.

L’uomo è un avaro cognitivo – “Il principio dell’avarizia cognitiva è che le nostre risorse mentali da dedicare ai nuovi oggetti di conoscenza sono limitate dal fatto che dobbiamo già elaborare un’elevata quantità di informazioni. Questa scarsità di risorse cognitive, percepita come mancanza di tempo, è alla base della generazione di euristiche, cioè scorciatoie cognitive” .
Quest’ultime (Tversky, Kahneman, Nisbett e Ross) vengono usate quando ci si trova di fronte ad una situazione complessa e possono essere di diverso tipo. Funzionano correttamente nella maggior parte delle situazioni ma alcune volte portano ad errori.

Gli studiosi hanno dimostrato che prendiamo decisioni utilizzando un numero limitato di euristiche al posto di attivare un processo razionale più faticoso e lungo, questo modo di decidere ha permesso all’uomo di sopravvivere nei tempi in cui era necessario reagire velocemente a stimoli ambientali. Oggi l’ambiente che ci circonda è meno ostile dal punto di vista fisico ma minaccia la nostra vita psichica, decisamente sovraffollata e vittima di “bias cognitivi”, cioè errori di pensiero, di decisione.

Tutti i dati che minacciano la nostra autostima vengono tendenzialmente ignorati.

Esiste un bias che è fondamento per tutti gli altri e che sottolinea che esiste una zona cieca (Bias Blind Spot) della nostra consapevolezza e che nonostantante crediamo di essere obiettivi e relazionali non sia sempre così

I bias si dividono in categorie e possiamo elencare i principali

Visti questi errori nei quali incorriamo e considerando che sono solo alcuni che partecipano alle nostre (in)capacità di scelta non possiamo che rafforzare il già onnipresente senso di colpa che ci pervade quando siamo di fronte agli incroci dettati dalla nostra esistenza.

Ma … guardiamolo più da vicino, questo “guillt”

In psicologia il senso di colpa è un sentimento umano che, collegato alla colpa, intesa come il risultato di un’azione o di un’omissione che identifica chi è colpevole, reale o presunto, di trasgressioni a regole morali, religiose o giuridiche, si manifesta a chi lo prova come una riprovazione verso sé stessi.

Questa sgradevole emozione si traduce in un senso di oppressione, spesso localizzata fisicamente al petto; nella sensazione di non essere al proprio posto, di sentire qualcosa che non va; di essere sporco, degradato. Chi si sente in colpa nutre inoltre angoscia per quella che egli stesso ritiene una vittima degli eventi causati da sue azioni o omissioni.

Gli ingredienti del senso di colpa sono:

Si possono distinguere due macro-tipologie di senso di colpa: il senso di colpa altruistico (c’è una “vittima” ma non viene necessariamente trasgredita una norma morale) ed il senso di colpa deontologico (c’è la trasgressione di una norma morale, ma non necessariamente esiste una “vittima”).

A mettere a confronto queste due tipologie ci viene in aiuto uno studio che dà via ad una vera e propria letteratura, detta “trolleyology”, con tutte le versioni di quel gioco filosofico detto “dilemma del trolley”.

Esistono delle particolari condizioni che agiscono da modulatori scusanti o aggravanti che fanno in modo che noi avvertiamo maggiore o minore disagio rispetto alla colpa e la “versione dello scambio” (switch version) ci aiuta ad indagare il principio di azione.

“Un vagone ferroviario sta correndo fuori controllo su un binario, e più avanti ci sono 5 persone legate sul binario. Tu puoi girare uno scambio, che farà deviare il vagone su un altro binario, salvando i 5: purtroppo su questo altro binario, c’è una persona, che non può essere avvisata in tempo, e che sarà sicuramente travolta ed uccisa. Cosa fare?”

Le persone possono compiere una scelta omissiva (senso di colpa deontologico: “non gioco a fare Dio”) e quindi non compiere alcuna azione, oppure consequenzialista (senso di colpa altruisitco) e quindi girare lo scambio considerando meno grave la morte di una persona rispetto a 5.

Normalmente un’azione è giudicata moralmente più negativa di una omissione anche se gli effetti sono gli stessi, la consapevolezza dell’effetto che si otterrà è la stessa, l’intenzionalità è la stessa ed anche la distanza psicologica della vittima è la stessa. (omission bias).

Se per fermare il vagone impazzito dovessimo compiere un atto che porterebbe le stesse conseguenze (5 contro 1) forse cambieremmo idea. Ci corre in aiuto la “footbridge version” della trolleyology (principio di intenzionalità):

“Un vagone ferroviario sta correndo fuori controllo su un binario, e più avanti ci sono 5 persone legate sul binario. Tu puoi tirare una leva e far cadere sui binari di fronte al treno in corsa un uomo grasso che con il suo corpo, morendo, potrà fermare il treno e salvare i 5”

In questo caso difficilmente le persone scelgono di tirare la leva perché il fatto di creare un nuovo evento (far cadere l’uomo grasso) rende più forte il carattere intenzionale dell’evento. Nella switch version l’intenzione era deviare il carrello e la morte della persona era conseguenza non imprescindibile (se per qualche fortuito motivo lo sfortunato fosse potuto scappare il treno avrebbe comunque evitato le 5 persone legate).  Nella footbridge version la morte dell’uomo è condizione imprescindibile per salvare i 5.

Di carrelli e versioni ce ne sono tantissimi, e vi consiglio la lettura di “Uccideresti l’uomo grasso?” di D. Edmonds per farvene un’idea.

Al termine di tutte queste riflessioni spero di aver creato, almeno, un po’ di movimento nelle menti dalle granitiche scelte, un movimento in crescita e riflessione, in ciò che davvero possiamo chiamare, senza temere, consapevolezza.

 

Bibliografia:

 

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